Capita ogni tanto che venga richiesto se sia possibile inserire all'interno di un testamento una clausola diseredativa.
La diseredazione è la disposizione di carattere patrimoniale a contenuto negativo con la quale il testatore esclude dalla successione un successibile ex lege.
Con la diseredazione, pertanto, il testatore pone in essere una disposizione testamentaria il cui effetto è quello di evitare che un determinato soggetto divenga erede, sia per successione testamentaria che per quella legittima. E' diseredazione anche quella clausola da cui può oggettivamente dedursi un' implicita, ma non equivoca, volontà del testatore di chiamare altri soggetti alla successione.
In senso lato, il termine diseredazione, è stato inteso anche come sinonimo di preterizione. Il preterito è colui che nulla consegue di una determinata eredità in quanto non contemplato come erede nel testamento, il quale ultimo, invece, contiene istituzioni di erede in favore di altri soggetti.
Tuttavia, nella diseredazione vera e propria l'esclusione del diseredato avviene in via diretta, in quanto essa è volontà espressa a chiare lettere nel testamento; nella preterizione, invece, l'esclusione avviene in via indiretta in quanto le istituzioni contenute nel testamento escludono di fatto il preterito. Inoltre, mentre il diseredato non ha alcuna possibilità di venire alla successione, il preterito, essendovi i presupposti di legge, può succedere qualora venga ad aprirsi la successione legittima a seguito della mancata accettazione di uno degli eredi testamentari.
La diseredazione non è contemplata dall'attuale codice civile. Attorno a questo dato incontrovertibile sono sorti due opposti orientamenti: il primo di coloro che ritengono che la diseredazione sia istituto estraneo al nostro ordinamento; il secondo di quanti affermano che la mancanza di norme disciplinanti la diseredazione non è un indice decisivo contro la sua ammissibilità. I fautori della prima tesi osservano, infatti, che, in base all'ordinamento vigente, il testatore non possa modificare le regole che concernono la successione legittima, se non creando i validi presupposti per la devoluzione testamentaria dell'eredità attraverso una disposizione positiva di contenuto attributivo.
Anche coloro che ammettono la diseredazione giungono, tuttavia, alla conclusione che essa non possa divenire strumento per precludere il conseguimento della quota di riserva. Il nostro ordinamento ha, infatti, assicurato ad alcuni successibili (coniuge, figli ed, in alcuni casi, gli ascendenti) ex lege, i c.d. legittimari, una tutela rafforzata rispetto agli altri eredi legittimi: essi hanno diritto a conseguire almeno una determinata frazione del patrimonio che varia a seconda dei casi. In funzione di tale tutela, quindi, la diseredazione, non può pregiudicare il legittimario in quanto costui, come visto, ha diritto alla quota di legittima che la legge, in ogni caso, gli riserva.
In linea di principio la dottrina è sempre stata possibilista, invece, sul fatto che gli eredi legittimi (non legittimari) possano essere di fatto esclusi dalla successione del de cuius. Tale assunto si basa sul fatto che non esistono norme che impongono in favore di detti soggetti una successione necessaria. Le norme in tema di successione legittima, infatti, intanto sono destinate ad operare in quanto non vi siano disposizioni di carattere patrimoniale effettuate dal de cuius (disposizioni testamentarie e donazioni in primis) che risultino in contrasto con esse. Per portare alcuni esempi: può succedere che Tizio, celibe e senza figli, con tre fratelli, istituisca erede universale con testamento un estraneo alla famiglia; oppure, che il medesimo Tizio disponga di tutto il suo patrimonio con donazione prima della sua morte. In entrambi i casi nessuno dei fratelli di Tizio potrà eccepire alcunché in quanto nessuna norma consente loro di agire contro eventuali disposizioni lesive dei loro diritti (o sarebbe meglio dire che essi non hanno proprio diritto ad alcuna quota di riserva!). Tale principio è cristallizzato nell'art. 457, secondo comma, c.c., il quale dispone che non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto od in parte, quella testamentaria; e nell'art. 557 c.c., in base al quale la riduzione delle donazioni e delle disposizioni lesive della porzione di legittima non può essere domandata che dai legittimari e dai loro eredi, o aventi causa.
Nel 2012, con la sentenza n. 8352, la Suprema Corte ha ribaltato l'orientamento fino a quel momento sostenuto abbracciando la tesi della ammissibilità della clausola diseredativa pura, affermando anche la validità del testamento che contenesse solo detta clausola. Pertanto, anche la sola diseredazione rivestirebbe carattere dispositivo, in quanto il termine “disposizione” non va associato, come detto sopra, al concetto di “attribuzione”: anche l'esclusione di un determinato soggetto dal novero dei successibili comporta un regolamento dei propri interessi per il tempo successivo alla morte e, come tale, rientra a pieno titolo negli atti di disposizione, idonei a formare valido contenuto di un testamento. In particolare, escludere dalla successione “equivale non all'assenza di un'idonea manifestazione di volontà, ma ad una specifica manifestazione di volontà, nella quale, rispetto ad una dichiarazione di volere, muta il contenuto della dichiarazione stessa, che è negativa”. Ancora, la clausola di diseredazione “integra un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il testatore sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il diseredato e restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta destinazione post mortem del proprio patrimonio”.
Inoltre, L’art. 1, comma 9, della l. n. 219/2012 (Disposizioni in materia di riconoscimento di figli naturali), con decorrenza dal giorno 1 gennaio 2013, ha introdotto l’art. 448 bis c.c. prevedendo che il figlio, anche adottivo, e in sua mancanza i discendenti prossimi, non sono tenuti all'adempimento dell'obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla potestà e, per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all'articolo 463 c.c., possono escluderlo dalla successione.
Si tratta di una norma introdotta nell’ambito della riforma che ha equiparato figli naturali e figli legittimi e che si posiziona nel Titolo XIII, nella sezione dedicata agli alimenti.
Essa, in primis, rappresenta una deroga al disposto dell’art. 433 c.c. (che dispone, tra gli altri, l’obbligo alimentare in capo al figlio ed in favore del genitore) giustificata dalla decadenza dalla potestà del genitore.
La norma, in secondo luogo, introduce un elemento di eccezionale novità: la possibilità di escludere dalla successione il genitore (che si rammenta essere un legittimario) qualora questi si renda colpevole di fatti diversi da quelli che integrano i casi di indegnità di cui all’art. 463 c.c..
Occorre sottolineare che la citata norma dispone la possibilità di escludere tout court il genitore, con la conseguenza che l’esclusione non riguarderebbe solo la porzione disponibile, ma anche quella indisponibile e, pertanto, colpirebbe anche la quota di riserva.
Al fine di comprendere la portata della norma, occorrerebbe stabilirne il concreto ambito di applicazione al fine di evidenziarne i contorni ed i limiti. Ebbene, da questo punto di vista, il tenore letterale certamente non aiuta. Quali sarebbero i fatti non integranti cause di indegnità che giustificherebbero l’esclusione? Quali i requisiti di forma? E’ possibile applicare la norma anche a soggetti diversi da quelli espressamente previsti?
Quanto al primo interrogativo, non vi è dubbio che la norma non si riferisca a qualsiasi tipo di fatto ma a fatti commessi dal genitore che comportano un pregiudizio per il figlio. Più precisamente, pare che la portata della norma debba circoscriversi nell’ambito dei fatti pregiudizievoli che comportano la violazione di doveri familiari che, seppur gravi, non siano tali da integrare cause di indegnità. Per questi fatti, quindi, la norma non prevede l’automatica estromissione del genitore dalla successione, ma la astratta possibilità di diseredarlo.
Quanto alla forma dell’esclusione appare chiaro come essa debba, innanzitutto, essere contenuta in un testamento ed operata da parte di un soggetto capace di testare. Inoltre, pare prudente, al fine di evitare errate interpretazioni della volontà testamentaria, indicare che la diseredazione sia effettuata ai sensi della norma in commento ed anche indicare l’elencazione dei fatti che astrattamente giustifichino l’esclusione. In assenza di tale ultima indicazione deve ritenersi che la diseredazione sia destinata a ricevere lo stesso trattamento che riceverebbe una normale diseredazione di un legittimario. L’indicazione analitica dei fatti che giustificano l’esclusione dalla successione può, quindi, essere determinante al fine di rendere efficace la disposizione, ma può al tempo stesso non essere sufficiente. Stante, infatti, che la norma non elenca casi specifici che possano giustificare l’esclusione, è verosimile che l’efficacia della diseredazione in parola risulterà spesso (ma, si badi, non necessariamente!) rimessa all’accertamento del giudice il quale valuterà se il fatto giustifichi, o meno, l’esclusione.
A questo punto sorge un importante interrogativo: qualora il genitore non intenda adire il giudice al fine di verificare se i fatti ad egli imputati siano tali da giustificare l’esclusione di cui alla citata norma, quale sarà la sorte della disposizione? Sarebbe soggetta al medesimo trattamento di una qualsiasi clausola diseredativa di un legittimario e, pertanto, a seconda della tesi accolta, potrebbe definirsi invalida (art. 549 c.c.) o riducibile? A ben vedere, la tesi dell’invalidità che trae spunto dall’art. 549 c.c. sarebbe (ove accolta) applicabile alla diseredazione ex art. 448 bis c.c. solamente nel caso in cui i motivi addotti, i fatti narrati, a giustificare la disposizione siano palesemente inidonei a determinare l’esclusione. Viceversa, in presenza di fatti astrattamente idonei, qualora l’escluso non intenda adire il giudice al fine di una attenta verifica degli stessi ed in mancanza, si ripete, di una analitica previsione normativa, non rimane altra strada che sostenere la validità della disposizione.
La norma in commento, laconica nel suo contenuto, è invece estremamente precisa nell’indicare chi può essere diseredato e chi può diseredare. Più precisamente: da un lato, il soggetto che può essere diseredato è il genitore che abbia commesso fatti che non costituiscono cause di indegnità; dall’altro, il soggetto che può diseredare è il figlio che abbia subito pregiudizio dai suddetti fatti. Sorge, quindi, per l’interprete il problema di stabilire se la norma sia applicabile anche al di fuori dei casi espressamente stabiliti, e più precisamente se l’esclusione possa essere operata anche da parte del genitore nei confronti del figlio, invertendo così la dinamica disciplinata dalla norma. Può, pertanto, il genitore, in presenza di fatti pregiudizievoli, non comportanti cause di indegnità, commessi dal figlio escludere quest’ultimo dalla propria successione? Lo stesso interrogativo potrebbe porsi in tema di rapporti tra coniugi. È chiaro che in questa sede, soprattutto in assenza di una dottrina consolidata sul punto, sarebbe rischioso fornire certezze. Tuttavia, bisogna chiedersi se esistano valide ragioni per escludere simili possibilità. Una ragione potrebbe essere rappresentata dal fatto che la norma è stata introdotta nell’ambito della riforma che parifica figli legittimi e figli naturali: la prospettiva del legislatore sarebbe stata evidentemente quella di occuparsi dei diritti dei figli e non di quelli dei genitori. Tuttavia, ragioni di ordine sistematico portano a dire che non vi è motivo per credere che debbano esistere taluni familiari che ricevono tutela (la possibilità di escludere dalla propria successione, appunto) quando subiscono determinati fatti, ed altri familiari che, per i medesimi fatti, non possano riceverne altrettanta. Si tratterebbe, insomma, di un aspetto talmente importante da comportare taluni profili di incostituzionalità.
Giuseppe Levante
18 maggio 2020
Giuseppe Levante
18 maggio 2020
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